IL
TORTELLINO: UN’INVENZIONE LEGGENDARIA
Storia
e leggenda si conoscono da sempre, e si sono sempre frequentate. La Storia
considera la leggenda come una vecchia nonna tanto dolce, ma un po’ via
di testa: i suoi racconti sono affascinanti, ma sono un fritto misto di
ricordi individuali e collettivi, di vecchie letture, sogni e
fantasie. Per
la Leggenda, la Storia è troppo pragmatica: un po’ arida, così
attaccata alle carte (i documenti) e ai numeri (le date): una specie
di contabile. La
Leggenda canta, la Storia conta, ma entrambe raccontano. Ciascuna col
proprio stile, ovviamente. Ed è proprio quello che succede a proposito
dei tortellini. Per il rispetto dovuto all’età, sentiamo per prima la
Leggenda. Secondo
A. Panzini, il Know-how del tortellino va ricercato - e ritrovato - sul
fondo di un secchio. Per amor di verità, di una secchia, la più famosa
della letteratura; La “Secchia rapita” cantata dal poeta modenese
Alessandro Tassoni nel 1624.
La
storia (qui intesa come trama dell’opera) narra, in termini burleschi e
canzonatori, dell’eterna rivalità fra Modena e Bologna: due città
troppo vicine, e troppo sanguigne, per non accapigliarsi ad ogni
occasione. E con ogni pretesto, come la proprietà di una comunissima
secchia tarlata, di quelle che si usano per tirar su l’acqua da un
pozzo.
Per
via della secchia trafugata dai modenesi scoppia una guerra eroicomica che
dura ben dodici canti; vi prendono parte l’Olimpo al completo, re Enzo,
e personaggi quali la guerriera Renoppia e il conte di Culagna.
Alla
Secchia Rapita si sarebbe ispirato il poeta ottocentesco Giuseppe Ceri,
che in un poemetto racconta della spedizione terrena di tre divinità
dell’Olimpo: Bacco, Marte e Venere. I tre, venuti a dar man forte ai
modenesi (ciascuno secondo le proprie competenze) in una delle tante
guerre contro i bolognesi, si fermarono a dormire in una locanda di
Castelfranco Emilia, al confine tra le province delle due città belle e
belligeranti.
Il
locandiere (poteva andare diversamente?) venne conquistato dalle
meravigliose fattezze di Venere, e decise di riprodurne
l’ombelico – che era riuscito a sbirciare – con la pasta
sfoglia che stava preparando giù in cucina.
A
questo punto la leggenda tace, soddisfatta. E salta su la petulante
Storia: è tutto sbagliato. Tanto per cominciare, Tassoni era
modenese, e non avrebbe mai fissato a Castelfranco - avamposto dei
Bolognesi - il luogo di nascita del così aspramente conteso
tortellino. A conferma di ciò, nella “Secchia rapita” -
prosegue implacabile la Storia – dell’ombelico di Venere
non c’è traccia né impronta: l’invenzione è dunque tutta farina
(sic) del sacco di Ceri, che nei suoi versi dice testualmente:
“….e
l’oste, che era guercio e bolognese,
imitando
di Venere il bellico
e
con capponi e starne e quel buon vino
l’arte
di fare il tortellino apprese.”
La
Storia non può comunque cantar vittoria. Far le pulci alla leggenda è
una cosa: ma tirar fuori le carte che testimonino la nascita del
tortellino, è tutta un’altra storia. Non meno nebulosa, in verità.
Il
Cervellati, storico degno di fede, segnala che nel secolo XII a Bologna si
mangiavano i “tortellorum ad Natale”. Una festività, quella
natalizia, molto vicina al solstizio d’inverno (il 21 di
dicembre).
Da
quelle parti, in quei giorni fa un freddo da accapponare la pelle. E quale
alimento è più corroborante e calorico del brodo di cappone, tuttora il
più fedele compagno del tortellino?
D’accordo;
questa non è una prova, è una supposizione. Ma tocca
accontentarsi: prima del XII secolo non è stato trovato alcun riferimento
al tortellino.
Solo
in seguito comincia a comparire qualcosa; in un libro di ricette
trecentesche alcune fonti fanno riferimento a una ricetta dei “torteleti
de enula”, un’erba presente in Emilia.
La
ricetta è redatta in dialetto modenese, che conclude così: “…e poi
faj i tortelli pizenini in fogli di pasta zalla”. Il riferimento
alla pasta sfoglia, gialla per la presenza delle uova, appare di evidenza
solare: e “pizenini”, piccini sono questi “tortelli”, proprio come
attualmente sono i tortellini.
Siamo
comunque ancora nel campo delle possibilità. E ci resteremo per tutto il
400. In compagnia di Giovanni Boccaccio.
Nel
terzo racconto dell’ottava giornata del Decamerone, Calandrino, Bruno e
Buffalmacco, alla ricerca dell’elitropia, la pietra che fa
diventare invisibili, finiscono nel Paese di Bengodi, dove “….stavan
genti che niuna casa facevan che far maccheroni raviuoli e cuocergli in
brodo di capponi.”
Ma
quali maccheroni raviuoli!, dicono gli emiliani. Dovevano essere
certamente dei tortellini: chi sprecherebbe così del delizioso (e
sostanzioso) brodo di cappone?
Per
uscire dal territorio del forse, ed entrare in quello del probabile,
dobbiamo arrivare al 1500, cifra tonda.
Nel
diario del Senato di Bologna quell’anno si riporta che a 16
Tribuni della Plebe riuniti a pranzo fu servita (tra l’altro) una
“minestra de torteleti.”: una ricetta che è probabilmente quella
degli odierni tortellini. Pochi anni dopo, nel 1570, un Cuoco bolognese
(forse Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V) fece stampare un migliaio di
ricette tra cui c’era pure quella dei tortellini.
Da
questo momento si viaggia più spediti. Nel 1664 Vincenzo Tanara, nel
citatissimo (a ragione) “L’economia del cittadino in Villa”,
descrive i “tortellini cotti nel burro.”
Nel
1842 il francese Valery, viaggiatore e bibliografo, segnala un “ripieno
di sego di bue macinato, tuorli d’uovo e parmigiano”, che altri non è
se non il trisavolo del tortellino attuale.
Il
tortellino era insomma nato, e stava benissimo. Ma non viveva mai
abbastanza a lungo da farsi conoscere: per le caratteristiche della pasta
e del ripieno, in capo a pochi giorni, se non veniva mangiato, era infatti
da buttare.
Per
la consacrazione dei tortellini bisognava trovare il sistema per
conservarli. Vi riuscirono i fratelli Bartagni, che nel 1906 riuscirono a
portarli fino in California, alla Fiera di Los Angeles, dove
furono molto apprezzati. Segno che si erano mantenuti bene.
Da
allora il tortellino si è affermato, e non si è fermato più.
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